Guardando gli acquerelli e i disegni di Sandro Lobalzo mi è affiorato alla mente, spontanea quasi inevitabile citazione, un passo di Cesare Pavese da Feria d'Agosto: "I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo".

Non saprei trovare motto o epigrafe più calzanti e appropriati per la pittura di Lobalzo. A osservare i suoi interni l'impressione dominante è proprio quella di trovarsi di fronte ad una realtà che mille volte avevamo già visto ma che ci si presenta adesso, precisamente ricostruita, con fattezze nuove, con significati inediti, con incrinature impreviste.

Presenze familiari ma pur enigmatiche, oggetti consueti perché circondano la nostra vita di ogni giorno, ma visti con un taglio, un'angolatura che li rende curiosamente eccentrici, testimoni che nella loro quotidianità immota rivelano il segreto insospettato del loro essere. Un guscio di tartaruga, alcune conchiglie, una ciotola, un gatto, un vaso, assemblati in combinazioni ogni volta differenti. E' un assiduo, instancabile, affettuoso Voyage autour de ma chambre quello che Lobalzo compie in questi suoi interni. Nel suo alto studio di Via Giacomo Medici c'è da pensare che Lobalzo osservi con un sussulto di stupore sempre rinnovato quegli oggetti abituali, ma diversi, a seconda della diversa luce che spiove nella camera nel trascorrere del giorno e nel mutare dei mesi o, forse, a seconda dell'animo di chi li guarda. Nature morte? O Vite silenti? Ed anche quando Lobalzo dipinge paesaggi, gli alberi e le case, le acque e i cieli nella loro immediata riconoscibilità, nella nitidezza del tratto e nella lucentezza del colore racchiudono pur sempre un soprassalto di imprevisto, di segreto.

L'effetto di essenzialità e di assorto risonante silenzio che emana dalla pittura di Lobalzo è dovuto alla nettezza discreta ed incisiva del disegno, e alla inattesa luce che avvolge e ammanta, sottolinea e sfuma, le cose e le presenze nei suoi dipinti. Il risultato è una sensazione di incombente e pervadente mistero: ma un mistero non inquietante, raggiunto non grazie all'introduzione di elementi fantastici o semplicemente anomali, come sarebbe in una pittura surrealista, ma anzi attraverso una rappresentazione minuta, meticolosa, precisa della realtà.

Ecco in un carboncino il gatto, accovacciato dietro ad un vaso che fissa lo spettatore, fermo e ieratico come una divinità egizia. E un acquerello rappresenta una riva del fiume ove spuntano tronchi invernali e più lontano una casa: dall'acqua un'anatra guarda la riva ed è come se fossero divisi da una ampia, ovattata cortina di silenzio. Il mistero della quotidianità, il senso nascosto e profondo di ciò che ogni giorno vediamo. In questo senso la pittura di Lobalzo mi pare inserirsi agevolmente in una precisa ed illustre tradizione pittorica torinese: quella, per intenderci, che dalle silenziose, assolate e segrete Piazze d'Italiadi de Chirico va agli interni corposi e figurativamente astratti di Casorati, e anche a certe nature morte impreviste e bizzarre di Italo Cremona.

Lobalzo guarda agli oggetti più semplici con una meraviglia genuina che si rinnovella di continuo, direi con una fanciullesca intima gioia di ritrovare in essi sempre una sfumatura non vista mai, una parola non ancora detta. Che, se non sbaglio, è proprio l'atteggiamento che il poeta, il poeta della parola come quello dell'immagine, ha sempre avuto nei confronti della realtà.

Pier Massimo Prosio

 

L'indifferenza della cometa

Indifferente ai destini, lei che solca il Destino. Indifferente al tempo, lei metronomo del Tempo. Indifferente al benvenuto e agli addii che dettano la vita, lei che accarezza l'eternità della Vita. Lo seduceva l'indifferenza della cometa che quietamente irrompeva nel riquadro della finestra, lo percorreva adagio e lentamente via lungo sentieri di stelle, lungo campi di costellazioni, lungo boschi di galassie. Lo calamitava quella baluginante indifferenza che avvolgeva l'indifferenza con cui lui spegneva esistenze senza desiderarlo, senza deciderlo, senza nemmeno goderne. Avviluppandola la faceva bastare a se stessa: lui, difatti, non la sentiva più costretta a fugare battiti di ciglia di solitudine.

La luminosità ovattata della cometa confusa ormai nello scintillio delle stelle, ecco il primo quarto di luna fiorire sulle pieghe dell'impermeabile accartocciato sulla poltrona, gelida lama di luce che penetrava a poco a poco in lui, ibernandogli il cuore. Come avrebbe invece voluto che glielo strappasse, il cuore, che lo scaraventasse tra le Ombre del Tempo, che lo guidasse a smarrirsi nel Piccolo Sepolcro, che ne facesse il balbettante suggeritore del Monologo.

Così beffardo, il primo quarto di luna, nell'ispirare i suoi Momenti di Attesa, nel riflettersi sulla sua lama mentre si insinuava nelle tenebre delle esistenze. E subito buio e silenzio, lui né assassino né carnefice, lui a sorprendersi distrattamente artefice, involontariamente complice.

Quanti occhi di stupore e di incredulità avrebbe fissato ancora, quanti sospiri sfilacciarsi in rantoli avrebbe ancora ascoltato, quanti cuori ancora avrebbe fermato, prima che l'indifferenza della cometa tornasse a illuminargli l'animo?

Ferdinando Albertazzi

 

Cose, luoghi e storie

Guardo un dipinto di Sandro Lobalzo e ho un tuffo al cuore, come capita a volte sommuovendo le stratificazioni di tracce che sono le case dove si è abitato a lungo o esplorando cassetti non più frequentati: ho riconosciuto infatti il nano ridanciano(cosiddetto nel lessico familiare), cioè una figurina in legno dipinto che ha accompagnato la infanzia mia e dei miei fratelli. La bocca sgangherata del nano nella storia certo diversa evocata da Sandro rima con la spaccatura dentata d'una melagrana (se sia stato il nano o la melagrana a generare l'altro speculare, questo non so).

Chissà perché - nemmeno posso dire d'aver particolare intimità con Lobalzo, per quanto sia più che trentennale la conoscenza -, ma è un fatto che, da quando mi è capitato di ragionare sulla sua pittura, più d'una volta i percorsi della nostra memoria si sono incrociati. Mica sto insinuando misteriose corrispondenze; voglio semplicemente sottolineare la forte suggestione che le sue immagini, fredde, riescono a raccogliere e provocare.

Cose e luoghi, è certo, arrivano da lontano, qui, negli acrilici di Sandro, dove l'evidenza può raggiungere il massimo della chiarezza ma sempre si trascina appresso una scia d'ombra, un alone di nebbia o un certo lucore, insomma i segni visibili di una natura fantomatica.

E, come sono affiorati, così essi - cose e luoghi - possono svanire, facendo al contrario il percorso che ne ha consentito la manifestazione.

L'occhio descrive i particolari, aiutato dall'abilità della mano che costruisce sul foglio di carta ciò che una rabdomantica emozione ha isolato nel magma altrimenti indifferenziato del tempo.

L'occhio, guidato dal ricordo commosso discrimina il materiale della memoria: frammenti, lampi si richiamano, per assonanze o dissonanze o altre relazioni, aggressive e insieme fragili, che non sai se c'entrino in partenza o siano a loro volta frammenti alieni o strategie più o meno efficaci per attivare percorsi e significati.

Lo stesso Lobalzo mi dà un buon suggerimento su un foglietto mal battuto a macchina: le immagini nemmeno tanto si presentano quanto rappresentano tracce di trascorsi, spezzoni di vissuto, significano in essenza perfino al di là di particolari storie, e perciò appartengono a tutti o almeno toccano tutti entrando in tante storie, perciò appartengono a tutti o almeno toccano tutti entrando in tante storie, perchè patrimonio comune differentemente utilizzabile.

Come dimostra anche l'ultima serie tematica: i ponti, per la prima volta esposti. Non si tratta di fare della psicanalisi a buon mercato e tanto meno della iconologia di grossa pasta. Ciascuno di noi - è un fatto - può racimolare nella memoria, nemmeno necessariamente remota (un sogno ricorrente ancora ci ha sorpreso l'altra notte), qualcosa che si articoli intorno alla immagine di un ponte teso tra due rive.

Personalmente, la storia è favolosa, legata - credo - ad un libro o ad una narrazione orale, che solo più tardi ha protagonista Lancillotto del Lago o Sacripante (ma c'è anche un ponte del diavolo che mi perseguita).

Le due rive sono, rappresentano mondi diversi, desiderabile in particolare l'altro. Il ponte congiunge pericolosamente: in mezzo c'è il baratro e sopra qualche ostacolo rende difficoltoso e quasi impossibile l'attraversamento. Il transito avviene solo in una direzione e quindi comporta, con il guadagno se c'è, una grave definitiva rinuncia.

A suo modo, non è meno fantastico un ponte basso e modesto che scavalca niente più d'un fosso: é un ponte 'privato', nascosto e reso quasi invisibile dall'incombere di vegetazione disordinata, che a sua volta separa il luogo segreto dall'invadenza di mostri alieni, per esempio industriali. Chi di noi ha vissuto sui margini della città nell'infanzia favolosa, potrà intrecciare ricordi e immediate osservazioni rispetto allo stesso luogo, con il ponte.

Pino Mantovani

 

Ombre e penombre

Il silenzio emana dagli acrilici di Lobalzo, quinte di teatro o forse teatrini essi stessi, montati da qualcuno che predilige la precarietà rispetto alla stabilità: infatti sono piani provvisori, appoggiati su scatole, retti talvolta su un piede o una sporgenza del muro, o qualcosa che si perde nell'ombra.

La luce, infatti, illumina prevalentemente spazi vuoti; gli oggetti protagonisti della scena (torniamo alla metafora del teatrino) entrano appena nell'occhio di bue, quel tanto che basta ad evocarli, e sembrano cercare riparo nell'oscurità, fuggire verso il buio, e in questo loro tentativo si trovano sempre fuori dal baricentro del piano d'appoggio, ma sono nature morte, quindi costrette ad una immobilità che pare farle soffrire: piante sfatte, frutti vizzi, foglie secche.

Se compare una testa scolpita, la vediamo voltata verso l'ombra.

E' come se questi oggetti, che sono i protagonisti dei teatrini di Sandro, non avessero più nulla da dire e nella loro muta infelicità cercassero di fuggire la confusione dell'infernale concerto della vita rifugiandosi nella semplice penombra.

Siamo di fronte ad una pittura che capovolge la funzione della luce, perché la luce qui non dà vita al colore, ma lo assorbe, sfiora gli oggetti quel tanto che basta ad evocarli, a dar loro una esistenza appena marginale, da fantasma che, appena apparso, tenta di sparire.

Espressione forse di un atteggiamento particolare di fronte alla vita, l'atteggiamento di chi cerca di addentarla, di chi sussurra invece di recitare, monologa invece di dialogare: e di questo monologo allo spettatore giunge solo qualche parola, residuo di un discorso che appartiene già al passato, e in cui quello che si voleva dire è già stato detto.

Lobalzo non camminerà mai distratto sulla corda tesa delle mode, ma seguirà soltanto gli ineludibili richiami di una virginale volontà di essere se stesso. Ecco quindi riapparire le inutili e dimenticate cose ringiovanite dai suoi segni e dai suoi colori.

Ne nasce un senso di malinconia, elegante e raffinata, con gli oggetti seminascosti nell'ombra, avvolti nel silenzio della loro natura di fantasmi.

Laura Mancinelli